I germogli invadono il mondo con una regolarita’ disarmante, anche quest’anno e’ cosi’. La sciocca felicita’ che leggo negli occhi dei miei simili dissimili e’ un veleno, si, ma nemmeno mi uccide. Si puo’ morire di tedio? Pare sia la mia unica speranza. Va bene gente, e’ primavera. Le rondini faranno ritorno in questa landa oscena e la stagione dell’amore portera’ nuova grana nelle tasche della Perugina. Contenti? Amatevi e moltiplicatevi. Prendetevi le cotte e seguite il feretro del vostro sgomento di fronte al nudo cielo che di notte mostra le sue reali sembianze. Chiudete gli occhi, mi raccomando, quando e’ buio. Che rimanga solo un sogno la vostra esistenza, l’intervallo necessario tra il nulla e il senso che non e’.
Dalla porta finestra della mia stanza d’albergo vedo la piazza del Palio. La stazione. E la grande torre mussoliniana, simile ad un enorme cazzo con due spropositate palle rosse. Sembra una invocazione alla potenza fallica agognata da chi e’ impotente. L’invocazione di un miserabile al Dio inesistente. Il cane nano che abbaia. Il gatto che gonfia il pelo per sembrare un puma e scoraggiare l’avversario. L’ho guardata bene stamattina, scopando la cameriera del bar Alfieri. Si chiamava Tamara, se non ho capito male. Scura di capelli e viso, con due tonde natiche fatte apposta per essere spaccate al mezzo. La sua altezza era perfetta per essere montata cosi’, in piedi, affacciata al piccolo balconcino, china sulla ringhiera mentre simulava indifferenza coi passanti che dal basso sicuramente la miravano in volto. Il resto, e col resto intendo anche me, era celato dalla tenda. L’ho sentita gemere lungamente, eccitata piu’ che dal mio pene, dalla posa assunta, dalle pecore bagnate e provinciali che fremono di pruriginosi sotterfugi meschini. Bagnata lei, distratto io. Distratto dai germogli, dalla fregola di bella stagione, dalle implorate e sicuramente disattese novita’ che ognuno di questi scialbi individui prega. E dalla torre fascista, vanto di una mancanza insabbiata.
Ad un certo punto l’ho sentita, Tamara, spingermi il corpo piu’ forte contro il bacino. Un po’ si voltava a guardarmi. Forse mi sentiva distante dal gioco che pensava stessimo facendo insieme. Quanta stupidita’ scorre nei neuroni degli esseri umani! Pensano di giocare quando sono solo il giocattolo. Pensano di condividere un pasto quando sono la pietanza. Piangono per non essere considerati alla pari del supposto commensale, quando invece non sanno che e’ grande onore, e di vitale importanza, essere il cibo per colui che vorrebbero loro pari. Tamara, io non sono tuo pari, siamo diversi, e tu dai senso alla mia vita. Questo avrei voluto dirle. Ma non avrebbe capito. Cosi’ le ho afferrato i capelli, l’ho picchiata ferocemente sulla ringhiera, ho sfilato il cazzo dalla sua fica e le ho piantato un colpo forte e deciso nel culo. Le natiche, come di regola, si sono aperte. Si e’ morsa le labbra godendo.
E’ stato in quel momento che ho affondato i denti nella sua spalla morbida, tappandole la bocca con una mano. Ho cominciato a divorarla nel bel mezzo del suo orgasmo. Dire se sono rimasto soddisfatto del mio pasto mensile e’ cosa ardua. C’e’ un tarlo che mi perseguita da tre settimane, un ricordo. Mentre tornavo in albergo, venti giorni fa, devo essere passato accanto a qualcuno che mi ha penetrato con lo sguardo. Non l’ho vista (“vista”, si, perche’ era una donna, ne sono sicuro) ma ne ho sentito i pensieri. Erano immagini, solo immagini, e me le tirava addosso. La sua figura stava, come un airone, ferma e nuda, minuscola, a due millimetri dai miei denti, di spalle, distesa a croce tra il labbro superiore e il labbro inferiore della mia bocca gigantesca. Legata nei polsi e nelle caviglie.
E’ l’airone che ho sognato a Genova, non ne dubito affatto. Mi vola in cerchio sulla testa. Sento che mi sta cercando.
Se avrei voluto mangiare lei piuttosto che Tamara oggi? Ci sono pasti che bastano per un mese. Ce ne sono altri che ti nutrono per l’eterno.
In ultimo ho da dire che ho di nuovo smesso di sognare. Ma che ogni mattina mi sveglio con la precisa sensazione di aver volato sulla schiena di un airone.